relazione firenze1010

Verso un’Alleanza delle città europee per una gestione sociale di spazi, beni

e servizi pubblici

 

L’attuale quadro normativo, scaturente dal nuovo art. 81 Cost., dal d.l. n. 95/2012 sulla cd. spending review e, da ultimo, dal d.l. n. 174/2012, è contraddistinto da una forte compressione dell’autonomia dei Comuni in sede di scelta ed attuazione delle politiche locali, in palese contrasto con l’impianto della nostra Carta costituzionale (artt. 5, 114, 117, 118, 119 Cost.).

Occorre reagire alle politiche incostituzionali poste in essere dal governo Monti, caratterizzate da un accentuato centralismo autoritario e fortemente lesive dei principi della democrazia locale.

Ci si appella dunque a tutti i Sindaci d’Italia affinché sia dia inizio ad una mobilitazione contro le politiche antisociali ed accentratrici del governo Monti, al fine di riaffermare e dare effettività ai principi costituzionali sui quali si fonda la democrazia locale e la garanzia dei diritti di tutti i cittadini.

Nelle pagine che seguono sono illustrate alcune proposte partite da Napoli nel corso degli ultimi mesi per sviluppare, in ambito nazionale ed europeo, una coscienza diffusa dell’importanza del livello locale e delle funzioni istituzionali che competono a quella sede.

 

1. La Rete dei Comuni per il Bene Comune[1]

E’ tempo che i Comuni italiani ritrovino su temi di interesse generale una piattaforma di valori condivisi e di proposte politiche da portare avanti, anche attraverso il conflitto, su scala nazionale.

Da Napoli è partito il progetto di una Rete dei Comuni per il Bene Comune, lanciato a fine 2011 da Luigi de Magistris sulle pagine de “Il Manifesto” e sviluppato negli incontri preparatori di Roma, Venezia e Napoli 2012.

Le possibili linee di azione sono molteplici e convergono tutte verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti fondamentali ad essi collegati, sulla base di una democrazia rinnovata in grado di reagire alla tirannia del binomio autoritario sovranità–proprietà e alla mistificazione della rappresentanza.

Il progetto, in altri termini, si propone di evidenziare il fil rouge esistente tra beni comuni e partecipazione, intesi rispettivamente quali nuove dimensioni di proprietà e sovranità, in una prospettiva di fruizione il più possibile allargata dei diritti fondamentali.

Le principali tappe di un percorso ambizioso e articolato, quale quello della Rete dei Comuni per il Bene Comune, possono essere così sintetizzate.

– In primo luogo, in attuazione della volontà referendaria espressa da 27 milioni di italiani nel giugno 2011 e della sentenza n. 199/2012 della Consulta, i Comuni dovranno impegnarsi, attraverso un patto federativo, nella battaglia per un servizio idrico integrato erogato secondo modelli pubblici e partecipati, in considerazione della natura di bene comune dell’acqua e delle relative reti, come è già avvenuto a Napoli con l’istituzione di ABC azienda speciale. Il processo ha conosciuto i seguenti momenti fondamentali: a) delibera di Giunta (n. 740 del 16 giugno) con la quale si è inaugurato il percorso; b) fase di consultazioni, nell’ambito della quale sono stati ascoltati esperti sui singoli aspetti della trasformazione; c) delibera del Consiglio comunale (n. 32 del 26 ottobre), con la quale si è disposta la trasformazione di ARIN spa in azienda speciale e l’approvazione del nuovo statuto; d) adempimenti di carattere societario inerenti al perfezionamento della trasformazione e al rinnovo delle cariche, appena perfezionati (novembre 2012).

La Giunta de Magistris, pertanto, si è dimostrata la più celere a tradurre in azione politica la volontà degli italiani, facendo propria la causa dei beni comuni, vero motivo ispiratore, sul piano culturale, della campagna referendaria.

Per quanto concerne la scelta del modello organizzativo, occorre rilevare che l’azienda speciale ex art. 114 d.lgs. n. 267/2000 appare più idonea rispetto alla forma giuridica della società per azioni a servire l’interesse generale, attesa la spiccata vocazione pubblicistica che essa esprime.

Ed invero, l’approdo verso forme di gestione totalmente (rectius, realmente) pubbliche del servizio idrico integrato, quale l’azienda speciale, rappresenta la più naturale conseguenza del voto referendario e della volontà dei cittadini di riappropriarsi dell’acqua, sottraendola alle regole del profitto.

Inoltre, l’adozione del modello dell’azienda speciale si rivela ancor più garantista per quanto attiene al delicato tema dei controlli, in quanto consente di andare ancora al di là della frontiera dell’in house (e del requisito del controllo analogo), in ragione della strumentalità dell’azienda rispetto all’ente locale di riferimento.

L’azienda speciale, poi, risulta particolarmente congeniale a modelli di governance del servizio partecipati e aperti alle comunità di lavoratori e utenti (uti singuli o in forma associata), quale quello in via di definizione nella città di Napoli (dove si è prevista, peraltro, l’istituzione di un Comitato di sorveglianza, sulla falsariga dell’Observatoire Municipal de l’Eau di Parigi).

Nei comuni italiani la gestione del servizio idrico integrato per il tramite di una società per azioni a totale capitale pubblico rimane ad oggi l’opzione più diffusa.

L’esperienza napoletana ha dimostrato che una gestione dell’acqua veramente pubblica è possibile, al di là dell’ipocrisia di schemi proprietari formalmente pubblici, ma istituzionalmente votati al profitto (quali le società per azioni di diritto comune).

Si ribadisce, pertanto, l’invito diretto ai Sindaci delle città che organizzano il servizio idrico integrato mediante società per azioni a totale capitale pubblico (Milano, Torino, Palermo, Venezia, ecc.) a siglare un patto per transitare tutti verso una gestione del servizio per il tramite di aziende speciali, seguendo, ad esempio, l’iter indicato da Napoli.

– I Comuni, attese le precise responsabilità e competenze in materia di servizi pubblici locali, potrebbero farsi promotori di politiche energetiche partecipate rivolte alla valorizzazione dell’ambiente e delle risorse naturali quali beni comuni.

Inoltre, sempre in un’ottica di democrazia ambientale, i Comuni dovrebbero dimostrare che la gestione dei rifiuti possa fondarsi sulla politica delle “R”, piuttosto che su discariche ed inceneritori e che la tutela dell’aria e la qualità della vita nelle città passino sempre più attraverso la predisposizione di ampie ZTL.

– La Rete potrebbe rafforzare la democrazia di prossimità e far sì che l’istituto delle municipalità, laddove previsto, sia messo nelle condizioni di operare in una dimensione di effettività, non già quale ulteriore luogo di mera rappresentanza svuotata di contenuti.

– Le istituzioni comunali, in quanto enti esponenziali delle comunità presenti sul territorio, devono impegnarsi a porre in essere politiche inclusive sul versante della rappresentanza, aprendosi, ad esempio, alla partecipazione dei migranti, ponendo il problema politico della doppia cittadinanza e dello ius soli per tutti.

– I Comuni potrebbero configurarsi sempre più quali laboratori di nuovi modelli di democrazia diretta e partecipativa, per il tramite, ad esempio, dello strumento referendario (referendum comunali).

– I Comuni potrebbero, inoltre, costituire una sede congeniale per la formulazione e proposta di azioni democratiche “dal basso” da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE n. 211/2001. Si pensi, in particolare, al progetto di una “Carta Europea dei Beni Comuni”, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione mercantile del diritto comunitario (sul quale si veda anche infra).

– Dai Comuni, infine, potrebbe partire il decisivo input per introdurre nell’ordinamento giuridico positivo la nozione di bene comune negli Statuti, oramai pienamente accolta nel dibattito culturale e dottrinale, al fine di influenzare le politiche pubbliche locali.

Si tratterebbe, peraltro, di dare nuovo smalto ed effettività alle disposizioni di cui al titolo V, parte II della Costituzione, in particolare sul ruolo e le funzioni dei Comuni.

La Rete dei Comuni per il Bene Comune potrebbe costituire un modello alternativo di democrazia, oltre l’orizzonte attuale.

Occorre fare in modo che ai Comuni, in una logica di democrazia economico-sociale, sia consentito di svolgere appieno le funzioni previste dalla Carta costituzionale, in armonia con l’art. 5 sulle autonomie locali e il decentramento. Si pensi, ad esempio, alla norma di cui all’ultimo comma dell’art. 119 della Costituzione, sulle possibilità di indebitamento degli enti locali per finanziare spese di investimento: come si concilia oggi tale disposizione con le regole del patto di stabilità?

Occorre pretendere che la Cassa Depositi e Prestiti abbandoni logiche mercantili e finanziarie e riprenda ad operare secondo la propria vocazione originaria, precedente alla sua trasformazione in società per azioni, ovvero rivolta allo sviluppo infrastrutturale dei territori e alla salvaguardia del welfare municipale.

Occorre reagire a questo federalismo demaniale che, così come configurato, potrebbe rappresentare la condizione per uno smembramento mercantile dello spazio pubblico attraverso procedure di alienazione del demanio.

La Rete dei Comuni per il Bene Comune potrebbe promuovere una campagna di “disobbedienza” avverso gli artt. 4-5 della legge n. 148/2011 che reintroducono processi forzati di privatizzazione dei servizi pubblici locali, determinando de facto il tradimento della volontà referendaria.

Il primo atto della Rete potrebbe essere, oltre alla costruzione di una piattaforma comune di obiettivi, la predisposizione di un cahier de doléances che raccolga questi ed altri spunti, da presentare al Capo dello Stato ed al Governo Monti per attuare e, soprattutto, far rispettare la Costituzione.

Si tratta di un progetto politico che parte dalla democrazia locale (ma che non ha nulla di localismo!) con l’ambizione di gettare le basi per un progetto politico nazionale.

2. L’iniziativa del Comune di Napoli per il consolidamento della democrazia partecipata in ambito europeo

Ai sensi degli artt. 11, co. 4 TUE e 24, co. 1 TFUE, il Comune di Napoli si è fatto promotore presso altri soggetti europei dell’iniziativa di invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata in materia di beni comuni, finalizzata all’adozione di un atto giuridico dell’Unione “ai fini dell’attuazione dei Trattati”.

Mediante lo strumento offerto dall’art. 11 TUE, il Comune di Napoli ha dato avvio ad una campagna europea rivolta all’affermazione, difesa e valorizzazione dei beni comuni all’interno dello spazio giuridico comunitario, mettendosi a disposizione, in tale processo, delle associazioni e delle varie realtà partecipative che operano sul tema.

Proprio in considerazione del criterio fissato dall’art. 11, co. 4 cit. della finalizzazione della proposta all’attuazione dei Trattati, occorre rinvenire all’interno del diritto comunitario una base giuridica alla nozione di bene comune.

a) Tale base potrebbe essere costituita dall’art. 14 TFUE (già art. 16 TCE) che enfatizza l’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché il loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, atteso l’intenso collegamento esistente tra servizi di utilità generale (ad es., servizio idrico) e oggetto del servizio, da intendersi quale bene comune (nella fattispecie, l’acqua).

b) Ulteriore base giuridica può essere rappresentata dai co. 1 e 2 dell’art. 191 TFUE (già art. 174 TCE), ai sensi dei quali “1. La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi:

— salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente,

— protezione della salute umana,

— utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali,

— promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici.

2. La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga».

In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell’Unione.”

Ed invero, una disciplina di beni giuridici a titolarità diffusa, direttamente collegati alla sfera dei diritti fondamentali (quali i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque, l’aria, i parchi, le foreste e le zone boschive, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni, i tratti di costa dichiarati riserva ambientale, la fauna selvatica e la flora tutelata, le altre zone paesaggistiche tutelate, i beni archeologici, culturali e ambientali) potrebbe trovare proprio nella materia ambientale un naturale collegamento, nonché un’ideale collocazione sistematica.

Dal punto di vista procedurale, ai sensi della comunicazione COM(2010) 119 def., si potrebbero coinvolgere partner (ad es., Comuni, realtà associative, sindacati, movimenti, ecc.) di almeno 9 Paesi comunitari (ad es., Parigi, Barcellona, Heidelberg) ed avviare la raccolta di 300mila dichiarazioni di sostegno di firmatari cittadini di almeno 3 Paesi comunitari per sottoporsi allo screening preliminare della Commissione.

Dal punto di vista dei contenuti, si potrebbe articolare la proposta di uno “Statuto europeo dei beni comuni”.

Si potrebbe immaginare un art. 1 di tale Statuto che ricalchi, almeno in parte, il seguente modello:

“La politica dell’Unione mira alla tutela dei beni comuni, intesi quali cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento comunitario anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne e’ consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’ aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.


[1]    Il testo del par. 1 riprende un articolo dell’autore apparso su “Il Manifesto” nel dicembre 2011.

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